di Salvo Barbagallo
Quando la violenza ci colpisce direttamente restiamo annichiliti ma, alla fine, non sappiamo cosa fare, come reagire. La tragica storia del giovane ricercatore Giulio Regeni, barbaramente assassinato al Cairo, in Egitto, dovrebbe dirci che il raccapriccio non è sufficiente a fermare le violenze che si continuano a verificare ovunque. Violenze delle quali la maggior parte rimangono sconosciute o ignorate. Prima di essere ucciso e poi lasciato in fosso alla periferia della grande città egiziana, Giulio Regeni è stato sottoposto a torture inaudite: lo ha dimostrato l’autopsia. Sul corpo segni di bruciature di sigaretta, tortura, ferite da coltello e segni di una morte lenta: la grande civiltà dell’Egitto annullata in una barbarie senza fine che, fortunatamente, non coinvolge l’intera popolazione ma solo una sparuta parte di fanatici. Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha dichiarato che coopererà pienamente con le autorità italiane, respingendo come ingiustificati i giudizi, le accuse e le insinuazioni senza prove le convinzioni degli investigatori italiani che qualcuno nei servizi di sicurezza locali abbia interrogato e torturato a morte il giovane friulano. Condivisibili le parole del ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni: Credo che siamo lontani dalla verità.
E probabilmente la verità “vera” non salterà mai fuori perché inevitabilmente entreranno in gioco fattori di natura superiore, quali i rapporti diplomatici o commerciali tra Italia ed Egitto. In una intervista a Viviana Mazza sul Corriere della Sera il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha tenuto a sottolineare Spero che i media non esagerino. La morte di ogni individuo è di importanza enorme, che sia italiano, egiziano o di qualunque nazionalità, ma i rapporti tra i nostri Paesi hanno un impatto su milioni di italiani ed egiziani. Il caso individuale è importante, ma crediamo che il rapporto con l’Italia sia solido e basato su interessi e rispetto reciproci. Il nostro governo ha dimostrato di voler far luce su questa deplorevole morte con indagini congiunte (…).
Alla fine, quali “interessi” prevarranno su una verità che chiaramente è “scomoda”? Il caso dei marò italiani in India, dopo anni non concluso, forse ha insegnato qualcosa, forse no.
Secondo quanto risulta all’Huffington Post, Giulio Regeni sarebbe stato fermato al Cairo il 25 gennaio scorso in un luogo non precisato, insieme ad una quarantina di oppositori dell’attuale governo che si stavano preparando a manifestare in piazza Tahrir in occasione del quinto anniversario della rivolta. Perché fosse lì, non è chiaro: un reportage, semplice curiosità? Subito dopo, il giovane sarebbe stato trasferito con tutti gli altri in una caserma della polizia o in una delle sedi del Mukhabarat. Regeni parlava l’arabo, e questo paradossalmente avrebbe peggiorato la sua situazione perché è stato ritenuto in grado di rispondere alle domande e quindi di fornire nomi e informazioni sulle altre persone che si trovavano insieme a lui. E sempre secondo Huffington Post negli ambienti di governo egiziani sta già cominciando a circolare la voce tutta autodifensiva che questo delitto abbia sì un connotato politico, ma nella forma di una trappola organizzata da pezzi degli apparati di polizia o del Mukhabarat legati all’opposizione (i Fratelli musulmani) per sabotare le relazioni con l’Italia e in particolare il nostro ruolo nel negoziato tra Tripoli e Tobruk.
Difficile conciliare interessi di vasta portata con un omicidio che presenta troppi lati oscuri per le modalità con le quali è stato perpetrato. Ecco perché il raccapriccio della gente “normale”, degli amici, parenti e conoscenti di Giulio Regeni purtroppo può fare poco, così come lo sdegno verso le violenze che si consumano quotidianamente, sia quelle che ci toccano da vicino, sia quelle che ci appaiono lontane.